Economia e Finanza

Citywire

• Osservatorio Global Bonds •

In seguito alla riunione del comitato esecutivo del 29/30 gennaio, la Fed ha mantenuto come previsto invariato il tasso di riferimentoall’intervallo 2,25% – 2,5% dopo averlo complessivamente alzato di 225 punti base da fine 2015. L’autorità monetaria ha confermato la solidità dell’economia nordamericana, contraddistinta dal rafforzamento del mercato del lavoro, dalla robustezza dei consumi e da pressioni inflattive in linea con l’obiettivo pari al 2%, condizioni che dovrebbero perdurare.

A differenza dello scorso dicembre – quando Constitution Avenue aveva lasciato presagire un ulteriore, imminente sebbene graduale, innalzamento del costo del denaro – tuttavia, la banca centrale prevede oggi di essere più “paziente” nel determinare gli aggiustamenti alla politica monetaria nel futuro di breve/ medio periodo, che dipenderanno quindi strettamente dall’andamento di occupazione, inflazione e crescita.

Il governatore, Jerome Powell, inoltre, ha dichiarato che, pur ritenendo il tasso di riferimento lo strumento principale a disposizione, la Fed non esclude la possibilità di modificare – se necessario – anche il programma di riduzione del proprio bilancio, che consta attualmente di 50 miliardi di dollari al mese. Sono, in tal senso, stati sottolineati i rischi legati allo scontro commerciale con Pechino, al rallentamento di Europa e Cina, alle difficoltà politiche che hanno portato al recente “shutdown” e alla volatilità dei mercati finanziari.

L’istituzione guidata da Jerome Powell sembra, in altri termini, avere compensato la propria stessa retorica di fine 2018, giudicata eccessivamente restrittiva dal mercato. Il rischio insito in tali, ondivaghe, dichiarazioni di intenti appare, tuttavia, piuttosto evidente. Qualora, infatti, le condizioni dell’economia si mantenessero buone – scenario che, come detto, è attualmente il più probabile stando alla stessa Fed – la banca centrale sarebbe nuovamente costretta a un mutamento repentino di rotta, tornando a restringere la politica monetaria, in assenza del quale potrebbe essere percepita “dietro la curva”. L’assenza di una direzione chiara e predefinita, inoltre, incrementerà verosimilmente l’entità della reazione dei mercati al fluire dei dati macroeconomici.

Sull’altra sponda dell’Atlantico, la Bce – riunitasi il 24 gennaio – ha mantenuto inalterato il tasso di riferimento a zero e quello sui depositi a -0,4% e continua a non preconizzarne alcun aumentoalmeno sino alla prossima estate. Draghi ha sottolineato il recente, marcato, rallentamento e i crescenti rischi di natura esogena ed endogena che gravano sul Vecchio Continente, ma non ha per il momento annunciato alcuna nuova misura di stimolo, pur non escludendone la possibile implementazione qualora necessario. L’Eurotower potrebbe, in particolare, lanciare una nuova asta TLTRO (Targeted Long Term Refinancing Operations) al fine di sostenere l’erogazione di credito da parte del settore bancario.

Il tono accomodante della Bce e della Fed, unitamente ai timori di un raffreddamento della crescita globale acuiti dalle ultime previsioni del World Economic Outlook del Fondo Monetario Internazionale pubblicato a metà gennaio, si sono immediatamente ripercossi sul mercato obbligazionario. Il rendimento dei Treasury decennali è ridisceso al di sotto del 2,7% – livello sostanzialmente identico a quello di fine 2018 – e quello degli omologhi tedeschi e italiani si attesta allo 0,18% e al 2,6%, livelli inferiori di 6 e 15 punti base rispettivamente a quelli di inizio anno.

Nonostante il recente abbassamento del costo del servizio al debito italiano, le prospettive dei Btp continuano a essere rese incertedalla debolezza dell’economia nostrana – rientrata in recessione tecnica nella seconda metà del 2018 e destinata a crescere in misura inferiore all’1% nel 2019 – dall’elevatissimo debito pubblico e dalla complicata situazione politica. Dopo essere sensibilmente saliti nel corso del 2018, inoltre, a gennaio sono tornati a diminuire gli spread creditizi dei corporate denominati in euro e dollari sia in ambito investment grade sia, soprattutto high yield (il cui differenziale rispetto ai governativi è calato di 40 e 80 punti base in Europa e negli Usa).

A giovarsi dell’attuale contesto sono, tuttavia, in prima istanza i governativi – tanto in hard quanto in local currency – di larga parte dei Paesi emergenti, i cui corsi – in particolare sulla parte breve/media della curva – sono sensibilmente saliti nelle ultime settimane. Le obbligazioni high yield – il cui tasso medio di default si mantiene estremamente contenuto – e il debito emergente dovrebbero continuare a sovraperformare nel breve termine.

Più incerte sono, invece, le prospettive di medio/ lungo periodo: un’eventuale riaccelerazione su scala globale spingerebbe le banche centrali a restringere la politica monetaria, con conseguenze nefaste in termini di spread corporate e yield emergenti. Un forte rallentamento, viceversa, innescherebbe un incremento del tasso di default, comporterebbe un peggioramento delle condizioni dei conti pubblici in buona parte delle economie emergenti e aumenterebbe l’appeal degli asset (quali Treasury e bund) considerati sicuri.