Economia e Finanza

Citywire

• Osservatorio Global Bonds •

In seguito alla riunione del Comitato Esecutivo del 18/ 19 giugno, la Fed ha mantenuto invariato il tasso di riferimento all’intervallo 2,25% – 2,5%, ma ha aperto alla possibilità di ridurlo nel prossimo futuro, qualora necessario.

La banca centrale di Washington ha lasciato quasi inalterate le proprie stime riguardanti la crescita del Pil e il livello della disoccupazione nel 2019 e nei due anni successivi ha abbassato, invece, leggermente quelle inerenti all’inflazione e alla misura “core” della medesima.

E’, tuttavia, stato sottolineato l’incremento dei rischi in grado di frenare l’espansione riducendo la variazione dei prezzi e ha reso pertanto noto che l’istituto è pronto ad agire per sostenere lo sviluppo del Paese.

Anche se la previsione media dei membri votanti del Federal Open Market Committee sul livello del costo del denaro a fine anno si attesta ancora al valore attuale, ben otto dei diciassette componenti di questo consesso credono sarà necessario almeno una riduzione nei prossimi sei mesi.

Sembra in tal senso verosimile che Constitution Avenue, qualora il recente rallentamento si protraesse, possa agire così come avvenuto nel 1995 e nel 1998, allentando moderatamente la propria politica monetaria pur non ravvisando il rischio di una imminente recessione.

Una settimana più tardi, il governatore Jerome Powell ha precisato che la Fed intende attendere conferme dell’effettivo raffreddamento dell’attività prima di reagire in termini di tasso di riferimento.

Sull’altra sponda dell’Atlantico, Mario Draghi – parlando al Forum Bce di Sintra in Portogallo – si è detto preoccupato dei rischi esogeni ed endogeni che gravano sul Vecchio Continente e del livello dell’inflazione molto lontano dal target pari al 2%.

Il governatore italiano ha pertanto dichiarato che Francoforte, che dispone di un ampio spettro di strumenti, non rimarrà inerte e qualora le condizioni non migliorassero nel breve termine, agirà in senso espansivo attraverso una nuova riduzione del tasso di riferimento, la ripresa del programma di acquisto di titoli di Stato e corporate o altre misure.

I timori legati allo scontro commerciale tra Usa e Cina e al rallentamento globale hanno, inoltre, spinto l’Australia ad abbassare nuovamente il costo del denaro – ora pari all’1%, minimo storico per Canberra – e il Giappone a protrarre indefinitamente il mantenimento dell’obiettivo, pari allo 0% – di rendimento dei titoli governativi nipponici.

Così come nella pressoché completa totalità dei Paesi avanzati – la sola Norvegia costituisce eccezione – anche in gran parte dei Paesi emergenti le banche centrali si conservano neutrali laddove non apertamente accomodanti in virtù dell’atteggiamento delle controparti americana, europea e giapponese e dell’esiguità delle pressioni inflattive locali.

Negli ultimi due mesi, infatti, la Russia e l’India hanno abbassato il tasso di riferimento di 25 punti base, l’Indonesia e il Brasile – dove il costo del denaro è oggi pari al 6,5%, minimo storico – hanno segnalato istanze espansive e la Cina ha proseguito nell’immettere liquidità nel sistema interbancario e attenuare i requisiti di capitale delle banche per rilanciare l’attività di prestito.

Nelle ultime settimane, pertanto, il mercato obbligazionario ha continuato a prezzare il contesto economico e monetario sopra descritto: a fine giugno il totale di bond con rendimento negativo – prevalentemente, ma non unicamente, governativi – presente su scala planetaria ha per la prima volta ecceduto i 12.500 miliardi.

I rendimenti dei Treasury americani a due e dieci anni si attestano oggi intorno all’1,75% e al 2%, ovvero in ambedue i casi una settantina di punti base al di sotto del valore di inizio 2019, anticipando tre/ quattro tagli del tasso di riferimento nel volgere dei prossimi diciotto mesi ovvero un allentamento ampiamente eccedente quanto fatto presagire dalla Fed.

Ancora più marcata si sta rivelando la discesa del costo del servizio al debito sovrano dei Paesi Europei: la curva tedesca è negativa fino ai quindici anni, quella francese fino ai dieci e i decennali spagnolo e portoghese rendono attualmente lo 0,32% e lo 0,4% – valori più bassi dall’introduzione della moneta unica.

Nelle ultime settimane ha ripreso a ridursi anche lo yield dei Btp, prossimo allo zero su scadenza biennale e sotto al 2% su quella decennale, grazie alle misure correttive promesse dal governo Conte alla Commissione europea che dovrebbero – almeno per il momento – evitare all’Italia la messa in procedura di infrazione da parte di Bruxelles.

Nel caso del Nostro Paese, tuttavia, non si può escludere una nuova recrudescenza della volatilità del debito sovrano e bancario durante l’autunno, quando l’esecutivo dovrà presentare la Legge di Bilancio 2020.

Gli spread creditizi – sia in ambito investment grade sia high yield, tanto in area euro quanto dollaro – non si sono, invece, sostanzialmente modificati a giugno in virtù di un calo del costo del servizio al debito corporate di entità molto simile a quello dei Titoli di Stato. Anche i rendimenti – sia in divisa locale sia in “hard currency” – dei titoli di Stato e societari di gran parte dei Paesi emergenti sono sensibilmente scesi nel sesto mese dell’anno in corso.

Spiccano, in tal senso, i miglioramenti registratisi in Brasile, Russia e Indonesia, dove lo yield del decennale governativo in valuta si è contratto rispettivamente di 115, 50 e 60 punti base da fine maggio.

Numerosi gestori di fondi obbligazionari continuano, in tal senso, a sottolineare come nel breve/ medio periodo le migliori opportunità del mercato si concentrino proprio nei Paesi emergenti, in considerazione del contesto monetario favorevole e del livello ancora elevato dei rendimenti offerti.

Nel comparto high yield le prospettive delle società nordamericane paiono migliori di quelle europee alla luce della maggior crescita economica e ancora del rendimento decisamente più allettante. Nell’attuale contesto caratterizzato dalla repressione monetaria il rischio potenzialmente più grave attiene verosimilmente a una – a oggi difficilmente pronosticabile – robusta riaccelerazione dell’economia e/o dell’inflazione negli Stati Uniti tale da modificare radicalmente gli intendimenti della Fed e conseguentemente gravare sui corsi dei tassi fissi oggi molto compressi.