Economia e Finanza


Il Sole 24 Ore

• 1 agosto 2021 •

Testo di Maximiliam Cellino

I dati Tosetti Value. In sei mesi le prime 30 società europee hanno segnato un dato
medio positivo dell’8% contro il +4,1% dei gestori italiani

Se dal Covid ci si poteva aspettare una svolta, i prodotti del risparmio gestito targati
Italia non l’hanno colta, non ancora almeno. I loro rendimenti sono sì positivi,
questo è innegabile, ma quando li si confronta con i prodotti commercializzati in
Europa dalle altre case internazionali il divario resta evidente. La prima metà del
2021 si è infatti chiusa con una performance positiva media che raggiunge l’8% per
le principali 30 società di investimento per masse gestite a livello europeo e di poco
più della metà (+4,1%) per i gestori italiani.

Il ritardo italiano
Le ragioni del «ritardo» dei fondi di casa nostra sono del resto ben conosciute:
hanno commissioni ricorrenti decisamente più elevate (1,46% a fine giugno, ancora
in crescita dall’1,43% del 2020 contro lo 0,99% europeo) che a lungo andare
sottraggono risorse importanti ai risparmiatori. A questo poi si aggiunge lo storico
divario nella composizione dei portafogli stessi degli investitori, che in Italia
restano ancora troppo poco concentrati sull’azionario, la componente più dinamica
e redditizia (20,3% a giugno, pur in crescita rispetto al 17,7% di fine 2020 ma
ancora lontano dal 43,1% continentale), e prediligono invece obbligazionario
(32,9%) e altri asset (46,8%).
Le cifre emergono dal consueto rapporto trimestrale elaborato dal centro studi di
Tosetti Value, uno dei principali Multi-Family office in Europa, che Il Sole 24 Ore
è in grado di anticipare e che passa in rassegna le performance e i costi di tutti i
prodotti Ucits distribuiti in almeno un Paese europeo, classificati long-term fund,
attivi e passivi (con esclusione degli Etf), gestiti dalle prime 250 società per attivi.
E risultano ancora più accentuate quando si allarga l’orizzonte agli ultimi tre anni e
mezzo: 100 euro idealmente investiti il primo gennaio 2018 – data di avvio della
ricerca – si sarebbero infatti trasformati in un ammontare compreso fra 103,3 e
112,2 euro se impiegati in una Sgr italiana, quando fra le top 30 europee si
sarebbero potuti ottenere ritorni medi superiori e raggiungere picchi di 134 euro.
Anche in questo caso sono gli oneri cumulati che gravano sui prodotti di
investimento a balzare immediatamente all’occhio, un costo a volte poco visibile
che in alcune situazioni italiane ha sottratto ben oltre 8 punti percentuali alle
performance realizzate fra il primo gennaio 2018 e il 20 giugno 2021. Come già
accennato, non si tratta tuttavia dell’unico motivo di penalizzazione a carico
dell’industria nazionale: Tosetti Value pone infatti l’accento sul concomitante
fenomeno dell’ascesa degli Etf, un mercato che a livello globale vale ormai 9mila
miliardi di dollari contro gli appena mille miliardi del 2010.

L’avanzata degli Etf
«Le nostre analisi stimano in 1.155 miliardi di euro la dimensione del mercato
europeo, con un progresso del 20,6% tra performance e raccolta in soli sei mesi
rispetto ai 958 miliardi di fine 2020», spiegano dall’ufficio studi della Sim torinese.
In base alle loro analisi, in termini di performance l’anno scorso i gestori attivi sono
riusciti a fare meglio degli Etf. Nel primo semestre 2021 la tendenza si è
confermata per l’obbligazionario e le strategie alternative, ma si è di nuovo
invertita nell’azionario, dove i «cloni» stanno generando risultati migliori in tutti i
mercati.
La questione è che i player italiani sono totalmente assenti da quella che di fatto è
al momento l’area di gran lunga più dinamica dell’asset management. «È un
segmento caratterizzato da fortissima competizione di prezzo basata su economie di
scala, che ormai sembra possano essere raggiunte solo da un numero ristretto di
attori globali», nota Tosetti Value. Un treno che l’Italia ha evidentemente perso da
tempo.
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