Economia e Finanza

Il Sole 24 Ore

• 6 novembre 2022 •

Testo di Maximiliam Cellino

Risparmio. Nel 2022 il rosso dei prodotti europei sfiora il 15%. L’Italia resiste meglio alla tempesta grazie alla prudenza maggiore dei portafogli

Un quarto del valore in meno per gli indici azionari globali e un’emorragia che sfiora il 13% anche per il mondo obbligazionario. In quella sorta di annus horribilis che si sta rivelando fino a questo momento il 2022, nel quale ben poche asset class sono state in grado di sottrarsi alle vendite generalizzate, non ci si poteva certo aspettare un andamento molto differente da parte dei fondi di investimento vista la quasi totale assenza di strumenti sui quali cercare riparo durante la «tempesta perfetta» provocata dalla miscela di inflazione, rallentamento economico e Banche centrali di nuovo aggressive sui tassi.

Bocciatura senza appello

Le cifre relative ai primi nove mesi dell’anno non lasciano in effetti scampo: gli strumenti collocati dalle principali 30 società di investimento in Europa hanno in media consegnato perdite per il 14,5% ai sottoscrittori. A certificarlo sono i dati elaborati dal rapporto trimestrale del centro studi di Tosetti Value, uno dei principali Multi-Family office in Europa, che passa in rassegna i rendimenti e i costi di tutti i prodotti Ucits distribuiti in almeno un Paese europeo, classificati long-term fund, attivi e passivi (con esclusione degli Etf), gestiti dalle prime 250 società per attivi.

Impossibile sottrarsi alla bufera anche per i fondi collocati dalle prime dieci Sgr italiane, zavorrati nello stesso periodo da un passivo del 13% che si è fermato solo un gradino prima rispetto alle europee. A poco stavolta è valso l’atteggiamento prudente dei nostri risparmiatori (e di conseguenza dei gestori) che li porta a sotto pesare quella componente azionaria (22% anziché 46,4% registrato su scala continentale) più redditizia nelle fasi rialziste, ma anche più volatile.

Nella disfatta generale dei mercati è in effetti venuto stavolta a mancare l’abituale cuscinetto del reddito fisso, quello presente nei fondi obbligazionari che nei portafogli italiani stazionano per il 30,9%, ma anche nei prodotti classificati sotto la voce «altri asset/strategie» che finiscono per investire in larga parte negli stessi bond. Si partiva da tassi ridotti ai minimi, e in molti casi addirittura negativi, come mai era avvenuto nella storia e la scure delle Banche centrali ha potuto abbattersi sui prezzi senza trovare ostacoli. A questo si può aggiungere l’abituale handicap da cui partono i fondi italiani, gravati come sono da commissioni ricorrenti (ongoing charge) superiori del 50% rispetto alla media continentale anche quando i mercati deludono: 1,5% contro 0,95% su base annua.

Il momento del riscatto

L’auspicio (se non l’obbligo) è di ripartire adesso da quelle macerie per la ricostruzione degli stessi portafogli, ma con qualche convinzione e speranza in più rispetto a qualche mese fa. A darla è soprattutto l’evidenza che nell’obbligazionario il «reddito» è tornato a dare valore e che al tempo stesso le valutazioni di molte azioni non sono più compresse come apparivano all’inizio di quest’anno. Anche se forse queste ultime non sono del tutto a buon mercato in termini assoluti, se si pensa alla recessione in arrivo in Europa e in gran parte del resto del mondo (Stati Uniti compresi).

A vantaggio dei gestori può giocare il fatto che la fiducia fra i risparmiatori non sembra andata ancora persa, almeno non del tutto. A dimostrarlo è l’assenza, finora, di una capitolazione dei mercati e soprattutto di una vera e propria fuga dai fondi, come ricordano dati sulla raccolta in molti casi ancora insospettabilmente robusti anche nel mese di ottobre.

Fa una certa impressione notare come il montante realizzato a partire dal 2018, data di inizio dell’analisi di Tosetti Value, sia nel frattempo tornato negativo. Cento euro investiti in prodotti di case italiane si sono cioè ridotti di valore, mentre nel resto d’Europa si sono trasformati in alcuni casi anche in 120 euro nello stesso arco di tempo. Il tutto in presenza di spese correnti cumulate che hanno talvolta superato il 10%, contribuendo ad abbellire i bilanci delle Sgr sottraendo però risorse ai risparmiatori. Dati sui quali l’industria del risparmio italiana è chiamata ancora una volta a riflettere, se vuole davvero arrivare a una svolta.

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