Economia e Finanza

Il Sole 24 Ore

• 31 luglio 2020 •

Testo di Maximiliam Cellino

L’analisi di Tosetti Value. Migliora la tenuta nella crisi, ma nel lungo periodo non ci sono ritorni positivi

Mostrano una miglio­re tenuta di strada nei momenti di sbandamento dei mercati, ma avanza­no a una velocità de­cisamente più ridotta quando il viaggio si fa lungo. Il bilancio dei prodotti di risparmio proposti agli investitori dalle principali società di gestione italiane in questi primi sei travagliati mesi del 2020 è in fondo una conferma delle luci, ma anche delle ombre che caratterizzano l’in­dustria dell’asset management del nostro Paese. A ricordarlo è il con­sueto rapporto trimestrale elabora­to dal centro studi di Tosetti Value – uno dei principali Multi-Family of­fice in Europa – che passa in rasse­gna le performance ( e anche i costi) di tutti i prodotti Ucits distribuiti in almeno un Paese europeo, classifi­cati long-termfund, attivi e passivi ( con esclusione degli Etf), gestiti dalle prime 250 società per attivi.
I dati – che li Sole 24 Ore è in gra­do di anticipare -mostrano come da inizio anno le principali 10 società di gestione italiane registrino sì rendimenti negativi, ma in misura infe­riore rispetto ai Top 30 per masse gestite a livello europeo (un insieme quest’ultimo che comprende anche il gruppo Intesa San paolo e Anima): -3,6% contro -4,8% per cento. È tut­tavia allungando l’orizzonte tempo­rale che lo scenario muta, e in misu­ra sostanziale. Dall’inizio del 2018, anno in cui si sono cominciate a ela­borare le statistiche, appena tre gruppi italiani su dieci hanno pro­dotti in leggero utile per l’investito­re (solo Intesa, Prarnerica e Banco­Posta possono vantare un montante superiore a 100) e per tutti il risulta­to è comunque inferiore ai costi cu­mulati che si sono pagati nel perio­do (che variano a loro volta da un minimo del 2,85% a un massimo del 5,74%). Nel resto del Continente in­vece le società che garantiscono ri­torni positivi sono 25 su 30 (con montanti che raggiungono anche quota 122,3 nel caso di Morgan Stan­ley) e 18 su 30 hanno performance superiori ai costi.

Pregi e difetti della prudenza
Le spiegazioni del fenomeno sono molteplici: occorre anzitutto ricor­dare la storica «prudenza» dell’in­vestitore italiano, che ha una bassa propensione per l’azionario (15,5% contro 38,4% nella fotografia scattata al 30 giugno 2020 ). Questo dona sì una maggiore «resilienza» ai pro­dotti e ai portafogli nei periodi co­me quelli che abbiamo appena at­traversato nella fase più acuta del­l’emergenza coronavirus, ma pre­senta controindicazioni importanti nel lungo termine che Tosetti Value individua nella «scarsa partecipa­zione alla creazione di ricchezza ge­nerata dalla crescita economica glo­bale, scarsi rendimenti del rispar­mio personale e pensionistico, scarsa propensione ad aderire a quelle forme di acceleratori dello sviluppo e dell’imprenditoria priva­ta che sono i fondi di venture capitai e di private equity».
A questa caratteristica, che si po­trebbe definire storica, si aggiunge poi una controindicazione tipica sorta negli anni più recenti: «In un mondo in cui il rendimento obbliga­zionario è diventato pressoché ine­sistente gli operatori spinti dalla do­manda si ritrovano a proporre fondi flessibili, multi asset e simili, molto spesso caratterizzati da un grado di rischio simile all’azionario, quando non superiore considerando l’opa­cità e la minore liquidità intrinse­ca>>, avverte il centro studi, facendo poi notare che per questo genere di prodotti si pagano costi assai elevati «che a loro volta costringono ad au­mentare il profilo di rischio».
L’impatto del caro fondo
Il terna delle commissioni resta pur­troppo d’attualità per l’industria ita­liana del risparmio gestito, nelle fasi di esuberanza dei mercati così come in quelle di profonda crisi. Questo perché per la propria analisi Tosetti Value tiene conto esclusivamente dei costi ricorrenti gravanti sui pro­dotti (le cosiddette ongoing charge, Ogc), ovvero le commissioni di ge­stione, gli oneri di banca deposita­ria, i costi di revisione, eventuali al­tri costi fissi a favore della società di gestione che vengono ricavati diret­tamente dai bilanci dei fondi. E che si confermano sensibilmente più elevati (1,43%) peri gestori tricolori rispetto al resto d’Europa (1,01%). Se si pensa che a questi valori si debba­no aggiungere poi eventuali ulterio­ri oneri legati a commissioni di per­formance, ai costi di transazione e alle commissioni di ingresso o usci­ta spesso praticate dai gestori, non è difficile da comprendere quanto il complesso delle voci di spesa vada a zavorrare l’effettivo rendimento del portafoglio degli italiani.